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CILS, Francesco Meloni - foto di @fernando_pascualph (4)

Come possiamo leggere e interpretare i lavori di un artista?

Eccoci pronti a presentarvi la terza e ultima parte dell’intervista a Francesco Meloni, l’autore dell’opera simbolo della nuova campagna di (un)fair Milano firmata MADI Comunicazione.

Francesco ha risposto alle nostre domande, raccontandoci come è nata la sua passione per le arti visive, l’influenza che i viaggi hanno avuto sulla sua estetica, il modo in cui ha realizzato un progetto importante come quello della serie Vivre.

Ora ci parlerà del modo di porsi da parte di visitatori e collezionisti nei confronti dei suoi lavori, della figura dell’artista ai giorni nostri e, per finire, del luogo speciale in cui nasce la sua arte.

Le tue opere giocano molto sul lato metaforico legato all’universo narrativo del cantiere e del lavoro operaio. A questo riguardo, cosa pensi che potrebbe percepire il visitatore di una mostra o di una fiera che vede i tuoi lavori per la prima volta?

Immagino che i visitatori si possano sentire all’interno di un luogo fatto di forme, tessuti, materiali che si incontrano un mondo fantastico, popolato da personaggi spettinati e animato da momenti di giochi e burle. Allo stesso tempo immagino che il visitatore possa sentire la presenza di un luogo in cui l’abitare precede il costruire dell’uomo.

Quali sensazioni dovrebbe provare perché si possa dire che il tuo lavoro ha colto nel segno?

Premetto che sono troppo coinvolto per essere obbiettivo. Ma, provando per un attimo a diventare spettatore, penso che mentre osservo le opere dovrei sentirmi a casa. Vorrei averle a fianco mentre leggo sul sofà o mentre ascolto della musica. Vorrei pettinarle e accorgermi che in questo gioco plastico c’è un discorso molto serio di cui si parla poco o si fa poca analisi.

Quindi, per cogliere il segno dell’opera, dovrei sentirmi accolto, per poi capire che questa accoglienza mi vuole invitare a discutere sul lavoro, sulla vita o, per citare Proust, sulla vera vita, la vita che in un certo senso abita ogni istante in tutti gli uomini, ma che essi non vedono perché non hanno cercato di “rischiararla”.

Pensi che ci siano delle differenze di percezione e ricezione del tuo lavoro rispetto a chi invece colleziona arte, per esempio?

Penso che le differenze siano la cifra di un certo tipo di sentire che si attiva. Mi piace riportare qui una frase di Robert Venturi, tratta da “Complessità e contraddizioni nell’architettura”, del 1966. La utilizzai nel primo capitolo della mia tesi di Laurea e la fissai nella mente come effigie del mio carattere e del mio spirito: “Io amo gli elementi che sono ibridi piuttosto che “puri”, quelli di compromesso piuttosto che quelli “puliti”, contorti piuttosto che “diritti”, ambigui piuttosto che “articolati”, corrotti quanto “anonimi”, noiosi quanto “interessanti”.”

Hai contatti diretti con i tuoi collezionisti e quale fattore pensi li spinga verso i tuoi lavori?

Si, spesso ho contatti diretti con i collezionisti. Penso che non ci sia un unico fattore bensì almeno tre. Il primo è percettivo e si riferisce all’eccentricità delle opere, al fatto che si sentano sospesi, confusi ma attratti da esse, spesso tentano di accostarle a varie aree stilistiche, pop, concettuale, minimalismo… però poi tutto sfuma. Il secondo è la fascinazione che il collezionista prova nel ritrovarsi nel mio percorso, nella mia vita, nelle mie scelte.

Il terzo è il fattore tempo ed è dato dal consolidamento del secondo fattore, per il quale si crea una vera è propria affezione per i progetti, e in cui le opere – se consideriamo i titoli da me usati: Block#S2, Block#24 – divengono pezzi coabitativi, che generano relazioni molto forti, importanti, indelebili. Dietro la comprensione di un lavoro vi è sempre una coesione tra una o più persone.

Credi che il lavoro di un artista debba essere spiegato?

Penso che debba essere spiegato/capito il suo percorso, la sua traiettoria, il suo processo creativo. Bisognerebbe capire quale spazio crea, quale interstizio apre nel sistema globale e come riesce a determinare nuove forme di comunicazione.

Vuoi allora provare a raccontarci cosa dovremmo leggere nell’opera che abbiamo inserito in campagna?

E’ una domanda difficile, l’opera andrebbe letta secondo il proprio sentire, senza preconcetti, seguendo il proprio racconto interiore. Vorrei che i visitatori vedessero nuove chiavi di lettura del vivere, eludendo da ogni facile pseudo-percezione per la quale rischiamo di morire senza aver esplorato ogni possibilità di comprensione delle relazioni inter-umane.

Vorrei che trovassero il paradigma strutturale a cui le opere rimandano, ovvero il continuo dialogo tra vita sensibile e psichica, tra vivere e vita, in cui il lavoro operaio detiene il più alto grado di importanza, diviene elemento vivente tangibile, tattile, un’essenza che permane dentro di noi.

Spesso chi è più esterno rispetto al mondo dell’arte e della cultura immagina gli artisti come dei personaggi in stile bohémien, un po’ scapestrati e pronti ad avere il “colpo di genio” da un momento all’altro. C’è qualcosa di vero in questa rappresentazione stereotipata della figura dell’artista?

Non voglio relegare questa domanda ad uno spazio manicheo e quindi, di getto, mi vengono in mente il Pittore della vita moderna di Baudelaire e Midnight in Paris di Woody Allen. Penso che, da una parte, questo immaginario abbia una possibilità di esistere consapevolmente dentro e fuori di noi, anche se credo reputo più probabile che chi è davvero bohémien lo sia per nascita.

Certo, nella nostra società odierna, gli artisti sono molto differenti dal momento storico che ha generato l’immaginario bohémien. Le grandi trasformazioni di portata storica, politica ed economica hanno avuto un grande riverbero sia sul piano ontologico sia estetico, dando vita a grandi dibattiti e cambiamenti.

E quanto studio c’è, invece, dietro alla realizzazione di un’opera?

C’è un progetto che è la risultanza di tanto studio e ricerca, di viaggi, residenze d’artista, praticantato presso qualche artigiano e via dicendo. Un’opera non è mai solo parte del presente. Al contrario, acquista una forma di solidità proprio grazie al passato, mentre intanto si nutre e si concretizza nel presente.

Per realizzare opere così particolari, come hai strutturato il luogo dove lavori? E come rispecchia te e la tua arte?

Diciamo che il luogo ha strutturato me. Il mio studio quest’anno è una costruzione lasciata al grezzo, composta da un primo e un secondo piano e fabbricata lasciando finiti i muri perimetrali, il tetto, le aperture per le finestre e le porte. Non è dotato di impianto elettrico, ma di un punto acqua sul balcone.

Anche se può apparire inadatto alla produzione artistica, un ex cantiere è in realtà il luogo perfetto per la creazione di manufatti in cemento. Anche perché non butto niente, riutilizzo tutto e trovo scarti ovunque: ferro, legno, mattoni, materiali abbandonati dall’impresa. Ho messo a punto tre tavoli da lavoro sovrapponendo, su due pile di mattoni, i casseri utilizzati per la creazione delle forme.

Vista l’esposizione a nord-ovest, la nota dolente arriva con il Maestrale che, quando soffia, rende la casa una sorta di galleria del vento. La prima volta che mi stavo per arrendere alle intemperie mi sono chiesto: gli operai come farebbero, non lavorerebbero con questo vento? Non penso sia possibile non lavorare per via del troppo vento. Gli operai lavorerebbero senza sosta e ben coperti, con la speranza che il vento si plachi quanto prima. Così ho lavorato senza sosta. Non è stato semplice, ma nemmeno impossibile: quando il vento si placa si lavora come in uno studio normale, anzi si respira meno polvere e ci si può sporcare liberamente.

Le mie opere, del resto, hanno bisogno di essere costruite in cantiere perché parlano proprio del cantiere e delle sue dinamiche. Direi che lo studio nel quale lavoro al momento rispecchia completamente progetto, teoria e prassi: è come se abitassimo nel costruire.

 

Photo credit: Fernando Pascual – @Fernando_pascualph

 

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3-5 Marzo 2023
Superstudio Maxi
Milano
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