(un)’intervista a Francesco Meloni #1

Il racconto di Francesco tra arte, viaggi ed esperienze di vita
La seconda edizione di (un)fair Milano, in arrivo dal 3 al 5 marzo al Superstudio Maxi, vuole focalizzarsi sulla necessità di includere l’arte all’interno della nostra vita quotidiana, nel nostro habitat. Per questo motivo la nuova campagna di (un)fair firmata MADI Comunicazione ha scelto un’opera di Francesco Meloni, un artista capace di usare le tematiche del lavoro operaio e del cantiere come metafore per descrivere il legame tra lo spazio abitativo e le relazioni umane.
Abbiamo deciso quindi di porre a Francesco una serie di domande, in modo da farvi conoscere alcune curiosità molto interessanti sulle sua esperienze passate, sui suoi lavori e sul modo di interpretare le sue opere da parte di collezionisti e visitatori della fiera. In questa prima parte scopriamo come è nata la passione di Francesco per le arti visive, e in particolare per il mondo operaio delle “costruzioni”.
Francesco, per cominciare, come vorresti che ti presentassimo?
Per dirla alla Paul L.Harris, “ci sono tanti personaggi in ogni personalità”. C’è sempre una vita nascosta, quindi scelgo di presentarmi svelando alcuni tratti del mio vissuto che aiutano a comprendere al meglio il mio lavoro attuale.
In un certo momento della mia vita ho pensato che dovessi essere indipendente, o meglio, che dovessi dipendere da me. Così ho lasciato la scuole superiori per lavorare presso un’officina meccanica. Allo stesso tempo mi attraevano il disegno e la pittura, ma come figlio di un batterista/operaio, nonostante fossi libero di sperimentare con la musica, venivo ostacolato dalla mia famiglia nel mettermi alla prova con le arti visive. A 16 anni venni scelto per un viaggio premio in Kenya, e da allora fui sempre più attratto dall’idea di viaggiare e dalla musica. Solo dopo i vent’anni, però, desideroso di vivere lontano da casa, lasciai l’officina e decisi di riprendere gli studi seguendo ciò che mi attraeva davvero.
Gli anni del Liceo Artistico furono indimenticabili! Più o meno nello stesso periodo mi avvicinai anche al mondo della vela. Questa passione in breve tempo diventò una professione, fino a permettermi di aprire una Scuola di Vela tutta mia. Grazie allo sport iniziai a viaggiare verso mete esotiche. Amavo il nuovo, lo sconosciuto, avevo amici in tutto il mondo, mi sembrava di essere di casa ovunque.
Desideravo anche continuare a studiare, così mi iscrissi alla Facoltà di Filosofia: mi piaceva l’idea di poterlo fare mentre viaggiavo. Nel frattempo, infatti, visitai il Brasile – paese di cui mi innamorai – e l’Argentina. Andai in Uruguay, a Cuba, Capo Verde, in Senegal, Mauritania, Marocco e Tunisia. Viaggiai in Cina e poi in Vietnam, Filippine, Taiwan e ancora Hawaii, Stati Uniti e Dubai. In questo periodo dedicavo poco tempo all’arte, ma una parte di me sentiva la necessità di dipingere dove ero stato, avevo bisogno delle tele per costruirvi sopra il mio racconto.
In seguito andai a studiare anche a Londra, presso il London College of Communication, e girai l’Europa, che in tutta sincerità mi stava stretta. Continuavo a preferire i luoghi lontani, le grandi differenze. Gli ultimi dieci anni sono proseguiti con la nascita di mia figlia Viola Zoe e la mia partenza per Roma, dove ho anche frequentato un Master in Pedagogia dell’Espressione. Ho seguito tanti sentieri ma, alla fine, ritengo che la vera spinta formativa sia nata nell’officina grazie al quale ho conosciuto il lavoro. Ho ragionato spesso sulla possibilità di poter essere raccontato solo come artista, tralasciando ciò che mi è ruotato intorno, ma ho sempre considerato che, non trovando distanze semantiche tra gli elementi del vissuto e l’arte, il mio percorso artistico si è sempre inconsciamente allontanato dall’arte per rimanere nell’arte.
Potremmo dire allora che il tuo lavoro è una sorta di riflesso della tua esperienza personale? E dunque cosa raccontano di te le tue opere?
Per un periodo della mia vita, più che dalle esperienze mi sono lasciato guidare dalle abilità personali. Ma da quando ho iniziato a viaggiare, ho sentito ricollegarsi le mie esperienze vicine nel tempo ai riflessi provenienti dall’infanzia, dall’inconscio e dall’amore, più che dall’abilità tecnica. Penso che oggi le opere raccontino, in maniera sottile, tratti psichici e fisici della mia vita, dagli eccessi del vissuto ai momenti di grande chiarezza e lucidità. Sono diventate una sorta di cartina di tornasole del mio stesso vivere, sono blocchi di esistenza.
A proposito di blocchi: qual è stata la miccia che ha acceso il tuo interesse verso il mondo delle “costruzioni”?
Tutto è partito dalla fotografia, dai reportage sul lavoro fatti in Brasile, Senegal e Vietnam. Proprio in Vietnam avevo notato, per diversi giorni di fila, gruppi di persone che camminavano insieme e che iniziai a fotografare prima da lontano, poi pian piano sempre più da vicino, fino a che mi permisero di entrare nei loro dormitori. Da quel momento, stare con i lavoratori diventò prassi, così li aspettavo in entrata e in uscita dal cantiere. Giorno dopo giorno la mia visione era sempre più chiara e, dopo tanti luoghi fotografati, ne traevo un ordine, un ritmo, un’estetica.
Quando non fotografavo gli operai, fotografavo il lavoro. Quando non fotografavo il lavoro, fotografavo i cantieri e gli edifici. Il Brasile (2003), il Senegal (2008), Cuba (2010) e il Vietnam (2011) sono i quattro momenti in cui ho compreso le differenze dell’idea di sfruttamento sia dell’uomo sul territorio che dell’uomo sull’uomo.
Ho approfondito il tema del lavoro come riflesso del vivere, focalizzandomi sulle Favelas in Argentina al Fuerte Apache, nelle Filippine e in Brasile, e sulle fabbriche nelle Hawaii, in Cina e Romania. Sono stati tutti periodi in cui apparentemente mi estraniavo dal mondo, ma in effetti vi ero davvero immerso. Il costruire, l’operaio, il fare, il lavoro, il cantiere: era diventato quell’universo che mi consentiva di comprendere il mondo circostante.
Da quanto ci hai raccontato si capisce che per un artista è molto utile girare il mondo per scoprire culture diverse. Ti è mai capitato che l’esperienza di un viaggio cambiasse in modo significativo la tua estetica?
Per rispondere a questa domanda mi piacerebbe ricordare il grande viaggiatore novecentesco Victor Segalen quando, nel suo “Saggio sull’esotismo. Un’estetica del diverso”, descrive i suoi viaggi tra Polinesia e Cina, grazie ai quali riconosce un’opportunità nella distanza, nello shock cognitivo che rinnova le idee del viaggiatore a partire dall’incontro con l’altro.
Credo che l’esperienza del Viaggio sia fondamentale nel momento in cui contiene in sé quell’elemento che suggestiona la nostra vita ordinaria. Una volta subita la sua fascinazione, l’atto di viaggiare, attraverso il racconto e l’incontro, si converte in esperienze di formazione estetica del sé, riflettendosi esternamente sulle opere d’arte, nel quotidiano, nel carattere, nel parlare, nella scrittura. Il viaggio è la linfa di ogni essere umano, cela in se un’arma, una macchina da utilizzare contro la standardizzazione e l’omologazione.
Scopri qui la seconda parte dell’intervista, in cui Francesco ci parla della serie Vivre.
(un)fair
(un)expected art fair
3-5 Marzo 2023
Superstudio Maxi
Milano
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