La prima edizione di (un)fair si è conclusa poche settimane fa e avete ormai familiarizzato con il nome, un po’ particolare, della manifestazione, ma anche con il suo logo, con i colori, con i suoi elementi grafici distintivi. Al fianco di (un)fair dai primissimi giorni, sono state Annalisa Marino ed Evelina Pirazzi di MADI comunicazione ad impegnarsi a rendere ‘visual’ quello che era il concept della manifestazione che noi potevamo raccontare solo a parole.
Abbiamo pensato di presentarvele con una piccola intervista.
Buona lettura!
Annalisa, Evelina: ci raccontereste come è nata MADI?
Nasce da noi due, Annalisa Marino ed Evelina Pirazzi e dalla voglia di creare un progetto professionale condiviso. Quindi professionalmente parlando, nasce nel 2017 con una sua identità ben definita: MADI è un acronimo e sta per MAnuale DIgitale, lo strumento attraverso il quale suggelliamo i progetti di comunicazione e strategia ideati con i nostri clienti.
Ma la nostra storia personale ha inizio molto tempo prima del progetto professionale, precisamente nel settembre del 2000 sulle sponde del Lago d’Orta (Verbania) in un istituto d’arte che è la base della nostra formazione. Poi con il passare del tempo prendiamo due strade apparentemente molto differenti; viviamo le nostre esperienze lavorative in agenzie e studi tra Milano e Pavia e dopo anni di esperienze, nel 2017, dopo una serie di lunghissimi brainstorming nasce MADI, una non-agenzia di comunicazione basata al 100% sullo smart working, che al tempo per noi era una scelta audace perché non era ancora una moda e non se ne parlava così tanto.
Come è nata l’identità visuale di (un)fair?
Voi avete portato in MADI un’esigenza specifica, ossia dare una veste ben definita a quella che si sarebbe chiamata “unfair”.
Una serie di richieste iniziali, plasmate poi con la creatività di MADI e il grande feeling di tutto il team di lavoro, hanno dato vita ad un marchio versatile che oggi accompagna la prima edizione di (un)fair. Abbiamo sin da subito avvertito una certa fiducia nei nostri confronti – io (Annalisa) e Manuela ci conoscevamo già per precedenti esperienze di lavoro- quindi è stata una bella progettualità condivisa e congiunta. La richiesta era quella di creare qualcosa di riconoscibile ma che fosse NON convenzionale e che NON passasse inosservata. Quindi il marchio della NON fiera doveva avere un tocco irriverente, abbiamo così deciso di accentuare la negazione fondendo la U e la N in un unico simbolo iconico, originale e anticonvenzionale, come già detto diverse volte “un piccolo gesto di ribellione tipografica di grande valore che caratterizza tutta la visual identity, volutamente (un)usual proprio come (un)fair”. Questo è lo spirito che ha caratterizzato tutti gli strumenti e i materiali di comunicazione, così come la scelta della palette colore nella quale spicca certamente il verde fluorescente, una vera e propria chiamata all’attenzione: i colori fluorescenti infatti utilizzano una porzione più ampia di spettro visibile e lunghezze d’onda inferiori che il nostro occhio percepisce come più intenso e potente. Gli altri due colori sono l’azzurro dalle proprietà calmanti e mitigatrici e il nero che secondo le ricerche fatte nella fase preliminare di studio è molto presente nel settore.
Quali sono le domande fondamentali che ponete e vi ponete quando dovete creare un nuovo progetto da zero?
Nel caso di (un)fair non è stata una vera e propria partenza da zero, diciamo parziale, il nameing e il payoff erano dati per assodati poiché forniti da voi, capita però a volte che con MADI si entri anche in questo aspetto progettuale. Diciamo che le domande primarie, indipendentemente dal settore, sono solitamente: “Cosa ci sta offrendo in questo momento il mercato?” “Come è possibile rendere unico e riconoscibile il progetto che il cliente ci racconta?”
Ma quello che sicuramente muove e smuove più di tutto è la curiosità e la fame di approfondire; per noi le ricerche cross sector sono alla base di ogni progetto che entra in MADI. Abbiamo e stiamo lavorando in diversi settori, anche molto differenti fra loro ma l’approccio, anzi il nostro metodo di lavoro, prevede sempre 7 step cruciali: incontro, valutazione, legame, creazione, confronto, sinergia ed obiettivo. Per chi vuole approfondire sul nostro sito lo spieghiamo qui “METODO”.
Come è stato lavorare nel mondo dell’arte?
Annalisa: per me non era la prima esperienza in questo ambito, l’arte ha fatto parte anche del mio percorso di studi universitari ed in seguito diverse opportunità mi hanno portata a collaborare con realtà che gravitano attorno a questo mondo, ho fatto parte per diverse edizioni del team di F@MU – La Giornata Internazionale delle Famiglie al Museo e di KAT – Kids Art Tourism.
Evelina: per me con (un)fair c’è stato il battesimo nei confronti dell’arte contemporanea fieristica. Il mondo dell’arte è decisamente versatile e ricco di stimoli, tutti elementi positivi che rendono il lavoro più coinvolgente anche per noi consulenti.
Per concludere, vi chiederei una vostra personale riflessione sul mondo delle gallerie, almeno quelle che avete incontrato ad (un)fair. Vi sono sembrate attente alla loro “brand identity”? O è un concetto che viene ancora trascurato?
In questo frangente, non possiamo certo restituire un’analisi approfondita e accurata per cui servirebbero molti approfondimenti ma quello che possiamo fare è tratteggiare un’impressione basandoci sulle gallerie della prima edizione di (un)fair.
È doveroso dire che gli espositori che hanno partecipato quest’anno sono davvero eterogenei, ci sono realtà strutturate e di lunga data così come sono presenti progetti più giovani, un punto di forza per (un)fair che restituisce sicuramente una panoramica stimolante.
Diciamo che pur essendo appunto soggetti molto differenti, le basi comunicative in generale sono buone – escluse le poche gallerie che non hanno nemmeno un sito internet- la maggior parte di esse possiede una vetrina web, comunica sui social (principalemente Instagram) e possiede un marchio che ne definisce l’identità. Quello che traspare è però anche una sorta di omogeneità, infatti anche se ci sono ovviamente delle eccezioni, i siti web sono quasi tutti progetti digitali piuttosto standard e simili tra loro, che si basano sull’uso di fotografie come mezzo di comunicazione principale escludendo magari alcune interazioni video e audio che potrebbero dare un tocco di originalità; anche i 3d mapping o i virtual tour non sono sfruttati. Altra nota che possiamo raccontare, e che era già emersa nella fase di ricerca che ha preceduto la creazione del marchio (un)fair, è la pressoché costante presenza del colore nero nei marchi e nella maggior parte degli strumenti di comunicazione. In alcuni casi il nero viene associato ad altri colori tra cui emerge il rosso che è un grande classico delle brand identity. A quanto pare quindi il nero è un “must have” che identifica l’appartenenza al circuito delle fiere e gallerie d’arte. Per concludere quello che ci sentiamo di suggerire è di rinnovare e sfruttare meglio i diversi mezzi che la comunicazione mette a disposizione, immaginando anche usi più audaci che siano in grado di attrarre un pubblico diverso o per esempio più giovane (Generazione Y o Millennial). Spesso le persone credono che creare o rinnovare la propria brand identity e gli strumenti di comunicazione sia un investimento troppo oneroso ma forse quello su cui non si riflette abbastanza è: quanto c’è da perdere a non farlo? Ogni realtà poi ha esigenze diverse e non necessariamente bisogna pensare che servano budget stellari per avere una buona comunicazione.
Ringraziamo Annalisa ed Evelina per aver condiviso con noi questa intervista ma soprattutto questi mesi di lavoro.
Avete domande per loro? Trovate tutti i loro contatti su www.madicomunicazione.it o direttamente su Instagram